L’INTERVISTA di CLAUDIA BRUNETTO
Il preside di frontiera che ha lavorato a Brancaccio e allo Zen 2 andrà in pensione alla fine degli esami. “È importante parlare ai giovani di figure come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone Ci sono studenti che pur crescendo in contesti problematici hanno saputo riscattarsi
È importante parlare ai giovani di figure come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone». Ne è convinto Domenico Di Fatta, dirigente scolastico da diciotto anni e da quasi quaranta nel mondo della scuola, che con questi esami di maturità conclude la sua carriera e va in pensione. Tutta la comunità del liceo Regina Margherita l’ha voluto salutare con ben due feste. «Ricordo che quando insegnavo alle medie e morì don Pino Puglisi ci riunimmo per scrivere una nota. Di fronte alla frase “il prete assassinato dalla mafia”, qualcuno sollevò perplessità sull’utilizzo della parola mafia. Passi avanti da allora ne sono stati fatti e mi riempie di gioia la scelta di un testo di Borsellino come traccia del tema di maturità», dice il preside.
Di Fatta, cosa significa coltivare la memoria?
«Significa ricordare, sapere, conoscere. Per chi non c’era nel 1992 è fondamentale».
Questi sono i suoi ultimi esami di maturità, cosa prova?
«Sentimenti contrastanti. Ho dato molto alla scuola, ma la scuola ha dato molto anche a me in termini di affetto e riconoscimento da parte dei docenti e dei ragazzi. La scuola di questi ultimi anni, però, soprattutto dopo il Covid, è diventata molto burocratizzata.
Ormai siamo più dirigenti amministrativi, stiamo sempre dietro alle carte. La stessa cosa vale per i docenti».
Si ha sempre meno tempo per i ragazzi?
«Sì, ahimè, per loro e per la didattica. In questi anni avrei voluto avere maggiore tempo a disposizione per parlare con i docenti e con i ragazzi, anche se la mia porta è stata sempre aperta.
Per me il preside dovrebbe essere primus inter pares, una sorta di guida per i docenti, ma non abbiamo più il tempo».
Ha guidato scuole in quartieri difficili come lo Zen 2 e Brancaccio, in ultimo il liceo Regina Margherita nel cuore del centro storico.
«Mi sono sempre messo alla prova. Raggiunti obiettivi importanti nelle scuole dove mi trovavo, preferivo cominciare a lavorare in un altro contesto. Spesso, in tutte le mie esperienze, a mancare è stato il supporto degli enti locali».
Quali sono i traguardi più importanti?
«Il riconoscimento più bello è quello che mi è arrivato dai ragazzi. Un paio di giorni fa, al Policlinico, ho incontrato un infermiere che si è presentato come ex alunno dello Zen e mi ha riconosciuto. E non è la prima volta».
È tornato alla scuola Falcone dello Zen 2 dopo l’arresto della preside Daniela Lo Verde per corruzione e peculato, come è andata quella volta?
«“Questa volta non se ne deve andare”, mi dicevano i genitori».
Lo Zen di nuovo al centro della cronaca dopo la strage dei Monreale. Cosa pensa dei giovani di questi quartieri?
«Non bisogna fare di tutta l’erba un fascio. Ci sono ragazzi che anche nei contesti più problematici come lo Zen e Brancaccio studiano per riscattarsi. Anche al plesso Cascino del Regina Margherita, nel cuore di Ballarò e del regno dello spaccio, avevano creato un’aula autogestita svolgendo tantissime attività interessanti.
Ecco c’è chi si perde, ma c’è anche chi si impegna per cambiare le cose».
Come li ha visti cambiare i ragazzi in questi quarant’anni di vita scolastica accanto a loro?
«Li trovo, adesso, estremamente fragili. Si abbattono alla prima difficoltà. Abbiamo tre psicologi a scuola, ma ci sono continue richieste che in tre non riescono a soddisfare. È un campanello d’allarme. Ci vuole almeno uno psicologo stabile in ogni scuola».
Cosa augura alla scuola e agli studenti del futuro?
«Edifici a norma e spazi belli dove studiare. Se si lavora nella bellezza c’è speranza di salvarsi come dicevano Fëdor Dostoevskij e Peppino Impastato. E di certo più tempo ai docenti e ai dirigenti di fare quello per cui hanno scelto la scuola: i ragazzi e la didattica».
La Repubblica Palermo, 20 giugno 2025
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